La Regina degli scacchi diventa Regina della propria vita
(del M° G. Falchetta)
Non so se qualcuno ha letto nella vicenda di Beth Harmon la ricerca del successo personale, della lotta solitaria per raggiungerlo, per sconfiggere il gigante sovietico, per dimostrare la sua supremazia intellettuale.
Quella di Beth, seppure intensa, non è affatto una scalata per il successo, per l’affermazione, ma un percorso alla ricerca della propria identità, del proprio riscatto nei confronti di una vita che sembra già in partenza averle negato quello che agli altri è concesso.
A Beth non interessano le luci della ribalta, il successo in quanto tale, e nemmeno gli amici monotematici che parlano solo di scacchi. Vorrebbe aprirsi all’amore, ci prova, ma purtroppo si innamora dell’unica persona che la comprende ma quel sentimento non può ricambiare, rimanendo delusa da chi invece si propone senza intravedere la chiave del suo particolare bisogno di amare ed essere amata. Sentimenti che nel suo caso sono anche condizionati da una ricerca tutta interiore dei confini all’interno dei quali trovare la proprio strada, che completa quando con occhi diversi, arricchiti dalle riflessioni della sua amica di infanzia, fa i conti con il passato e con le proprie radici.
La vicenda di Beth Harmon, grazie anche ad una magistrale interpretazione della protagonista, è intensa, coinvolgente, emozionante. Per la prima volta porta sullo schermo, sin nei particolari meno conosciuti, un’attività intellettuale che allo stesso tempo è arte e logica, scienza e creatività, nella quale per comprendere il gioco occorre prima di tutto comprendere se stessi, un percorso che vede le tappe della crescita interiore della protagonista andare di pari passo con i successi sulla scacchiera.
Le richiamate similitudini con la vicenda di Fischer, misogino, antisemita, megalomane privo di ogni livello di introspezione personale o di empatia nei confronti del prossimo, che aveva quindi ben altri approcci e motivazioni, si esauriscono ben presto. La stessa “scalata” di Beth non è affatto solitaria, e nemmeno costellata dalle proteste infinite contro il “gioco di squadra dei sovietici”, che peraltro la ammirano. Di vero richiamo alla vicenda di Fischer è lo studio della lingua russa, che Harmon fa per attingere alla cultura scacchistica sovietica, mentre nessun altro aspetto associa realmente la vicenda di Harmon a Fischer, compreso il rapporto con il denaro, che per Fischer è simbolo di chi conta, del successo. Per Harmon i soldi sono solo uno degli strumenti della sua indipendenza, come orfana e come donna, come validamente viene mostrato dalla vicenda umana della sua mamma adottiva, che rimane priva di risorse in una società dove le donne sono solo casalinghe sottomesse, che le ricorda anche l’emarginazione e la disperazione della sua madre suicida.
Nello sceneggiato qualcuno afferma che gli scacchi sono “lo sport più violento che ci sia”, ma per Beth Harmon l’unica violenza è quella che il destino e la società le avevano riservato, che ha subito e subisce, una violenza dalla quale riesce ad emanciparsi a seguito di un processo di crescita, le cui tappe sono sottolineate dagli incontri sulla scacchiera, metafora della vita. Gli scacchi, in questo senso, si prestano a questa rappresentazione in modo ideale. Uno sport “trasparente”, dove ciascuno vede ciò che anche l’avversario vede, che lascia poco spazio alle riserve mentali che amano chiamare in causa le persone che non vogliono fare i conti con se stesse e con i propri limiti. Una competizione/gioco in cui entrambi vedono tutto ciò che accade, ed hanno a disposizione gli stessi elementi per poter assumere le proprie decisioni.
Straordinariamente appropriata, quindi, la scelta di mostrare questo processo critico di maturazione attraverso gli scacchi. Un gioco “scoperto”, dove la realtà è “rivelata” ad entrambi i contendenti, dove non c’è fortuna. Non resta che accettare i propri errori, mettendo a fuoco i propri limiti, per poterli comprendere e superare. Un’attività, “ginnasio della mente” (Tolstoj), che insegna a non sottovalutare, ma neanche a sopravvalutare gli avversari, così come anche le difficoltà della nostra vita, affinché la scelta della strada da seguire sia responsabile e consapevole e possa tradursi in felicità.
Gli scacchi non sono quindi rappresentati come uno sport violento tout court, e non già perché occorra fare dei distinguo sulla reale accezione del termine da accogliere nella fattispecie, ma perché l’attività intellettuale in se, con particolare riferimento all’eventuale sconfitta, può essere percepita come una violenza o, viceversa, come un’occasione di divertimento e di crescita personale in senso lato, a seconda del modo di essere di ciascuno.
È evidente che, poste queste premesse, la competizione intellettuale e la possibile sconfitta non possono che essere poste in stretta relazione con la percezione di se, con la rappresentazione più profonda che di noi stessi abbiamo. Questo comporta a volte profondi ripensamenti, e anche la protagonista va in crisi, rifuggendo dalla realtà attraverso l’alcool e l’isolamento, ma quando è sul punto di arrendersi una nuova coscienza di se la pervade, e la catarsi le da nuova energia, pronta a conquistare sulla scacchiera la vita che la attende.
Nello sceneggiato anche i protagonisti dei tornei, come nella realtà, reagiscono in modo diverso alle sconfitte: chi con disappunto, chi con signorilità e chi con interesse verso il talento di una giovane ragazza che tanto fa parlare di se in un mondo dominato dai maschi, sia sulla scacchiera che fuori.
Per alcune persone è difficile ammettere di essere fallibili, e per questa loro natura spesso hanno una considerazione di se poco incline a rapportarsi con la realtà, specie con quelle circostanze che suggerirebbero analisi e conclusioni ben diverse. Non è così per Beth Harmon, che con sofferenza tutta interiore, fa i conti con se stessa e con le vicende della propria vita, che si intrecciano con straordinaria efficacia narrativa con i successi e gli insuccessi sulla scacchiera.
Gli scacchi sono dunque lo specchio di un mondo che l’aveva relegata ai margini, e dunque sono la strada da percorrere, non alla ricerca del successo, della notorietà, ma alla ricerca di se stessa, della scoperta della propria identità, certo con intensa e profonda partecipazione, ma solo perché alla fine possa emanciparsi dal proprio triste passato e scegliere la sua strada, come nella bellissima scena finale.
Gli scacchi sono solo lo strumento perché questo percorso venga completato, attraverso la scoperta, la ricerca e il superamento dei propri errori, dei propri limiti. Il successo non è la vittoria contro il campione russo, ma il definitivo completamento del mosaico che compone la propria identità, che la vede finalmente libera dai propri fantasmi e felice di divertirsi, con semplicità, con gli appassionati che giocano in piazza, piuttosto che ricevere gli onori di un ricevimento ufficiale tra i potenti.
G. Falchetta
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